Lampi di Verità

Cosa fa di un uomo un poeta? Quale trauma, evento, predisposizione trasforma il normale viandante in un testimone lirico del proprio tempo? Noi, fruitori dell’atto compiutamente sbocciato in scrittura, leggiamo l’opera, esposti alla curiosità e al timore. Il vero poeta mette a disagio. Qualcosa ha inferto alla sua sensibilità un colpo fuori misura e, conseguenza di un poetare autentico, il lettore avverte l’espandersi di uno squarcio, in sé, in tutti. A volte, il demone è una scintilla invisibile, il lato oscuro di un granello di polvere, un nulla che vale tutto. La ferita è un’ombra di assenza, eredità nascosta, inaspettato legame tra chi scrive e chi legge. “Qui brucio la mia vita […] / Bruci tranquilla la mia vita a queste luci”. Così Sandro Penna getta nel fuoco dei versi una giornata di sordo dolore. Sua, nostra, eterna. La poesia filtra le ceneri comuni, altrimenti destinate ad essere soffiate via, in parole, ritmo, rime che sostengano il peso ineffabile del vissuto. La costola del poeta è sempre incrinata. Nella poesia, a differenza di altra letteratura, vi è sempre una verticalità supplementare, un taglio improvviso che lacera il comune modo dire la realtà e di rappresentarla. Uno schianto, un crollo, un buco nel tempo percepito. Un lampo.

Ne hanno parlato: 

Gianluca Garrapa – Lampi di verità

Giuseppe Battaglia –La poesia tra impegno civile e bellezza


Donato Di Poce

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PREFAZIONE
Alessandro Vergari

Donato Di Poce, autore poliedrico, vigile osservatore della società, è un poeta che non si chiude nel recinto della facile commiserazione davanti alle miserie del nostro tempo. Di Poce respinge la tentazione di adulare il proprio io, trappola che molti suoi colleghi non riescono, o non vogliono, evitare. L’autore ciociaro, milanese di adozione, mostra il suo profilo di poeta votato all’impegno civile, alla denuncia, aperto alla dimensione pubblica e alla vocazione del “noi”. Con l’immagine dei lampi il poeta esprime una misura e delinea una via di accesso. Nella notte sempre buia del nostro vivere politico e civile, le folgori squarciano il tessuto omogeneo del reale e sfaldano la trama compatta delle banalità e dei pregiudizi, aprendo per pochi attimi, nel battito di ciglia di un’epifania, fenditure e crepe, oltre le quali intravedere sentieri di sopravvivenza. Lampi di verità è una raccolta articolata in due parti; la prima consegna il titolo a tutta l’opera, la seconda è declinata su un versante di “bellezza”. Una biforcazione? No, piuttosto, due attributi della stessa sostanza. Già il pensiero greco ci richiama alla sintonia di “bellezza e verità”, assioma postulato, poi, con post-romantica chiarezza da quel grande sabotatore delle pretese dell’Io che fu John Keats e ribadito da Emily Dickinson in una delle sue composizioni più strazianti (I died for beauty).

Il poeta sop-porta il peso della denuncia, perché sarebbe oltraggioso chiudere gli occhi di fronte a «un’Italia piccola e impura… / Quell’Italia sporca, vile e distratta» che condannò a morte Pier Paolo Pasolini ed Enrico Mattei «due fenici al rogo»(Lampo I°), ma il lamento per la mattanza delle migliori menti di una generazione non scade mai a ripiego nostalgico, bensì si eleva a riconoscimento della «grazia», donata «a un popolo miserabile e solo» (Lampo II°), affinché un popolo di poeti ne faccia tesoro e si schieri accanto a «quella verità che sgorga dal vero», sguainando «l’Eresia delle parole» (Lampo III°). Questa è, in sintesi, la dichiarazione d’intenti di un poeta che affonda la penna nella carne di una nazione. Dal sangue versato nasce il bi-sogno di una rigenerazione collettiva, una buona causa gettata nel campo di future determinazioni. Mai come in questi anni, caratterizzati da un criminale depauperamento delle intelligenze, si riaffaccia il bisogno di una radicale ‘verifica dei poteri’: “C’è invero un solo mestiere che si sia tenuti a ben fare, ed è quello di uomini, cioè quello di un’integrale responsabilità, nel senso di: rispondere con la propria vita” (Franco Fortini). Il poeta, da un territorio oscuro di dimenticanze e di speranze represse, trae espedienti e motivazioni per nuove dinamiche di lotta da svelare al mondo.

In questo percorso accidentato, l’autore chiama a raccolta Guido Ceronetti, spietato testimone della notte dei tempi; invoca, in dialoghi accorati, la presenza-assenza di combattenti troppo presto venuti a mancare, come l’amico poeta Gianmario Lucini; chiede il sostegno di altri compagni di strada, lucidi interpreti del «nulla che incombe» (Ascolta), perché«Ogni uomo è una soglia / Aperta sull’abisso / Una presenza inattesa che scava / Gli abissi della follia» (Natale). Da questo vacillare sugli argini dell’impermanenza, da questa sospensione zen nel vuoto (La funicolare), può brillare la stella del dono gratuito e può nascere l’invenzione improvvisa. Ascoltare, tacere, sperimentare l’invisibilità (Essere), avere pazienza sono virtù cardinali per esercitare «la capacità di vedere oltre se stessi» (Sole nero), fino ad immedesimarsi nella solitudine della pietra, prova estrema di connivenza col creato. Solo così, in un palpito di rivolta etica ed estetica, l’egoismo perde la presa sull’io e costringe l’individuo ad aprirsi alla dimensione, ineliminabile, della pluralità. Espressione-chiave dell’agire poetico di Donato Di Poce è, non a caso, il concetto di “valore” e del processo di “creazione”, che ne sottende l’attuazione.

Accanto alla poesia, Donato Di Poce, uomo eclettico mai sazio di bellezza e di vita, cerca costantemente risposte in altre attività e ambiti di conoscenza: critica d’arte, fotografia, scrittura di aforismi. Chi pianta chiodi «nel cuore dei perché», lo fa non tanto per il bisogno di avere un’unica risposta, valida una volta per tutte, quanto per non lasciare che la fonte dello stupore si inaridisca. Nemico dei «demoni dell’impuro vivere», il letterato-poeta si impegna in una ricerca di senso, dura e faticosa, essenziale per sé e per gli altri, dove l’ipertrofia egotica non ha cittadinanza: «Cercheremo nella scrittura e nella vita… / Sveleremo i frammenti di un sogno… / Celebreremo la luce e la rinascita… / Moltiplicheremo i semi della CreAttività» (Creare valore / creare valori). L’approdo è la rinuncia alla parte inautentica della persona, meta raggiunta da chi riesce ad attraversarsi «come un deserto innamorato della notte» (Essere nessuno). Morire per rinascere, palingenesi teorizzata altrove dallo stesso Di Poce, nel manifesto della CreAttività, che -in uno dei suoi punti- recita: “La strada della felicità è una sola: diventare sempre più te stesso. Abbandona le maschere e i falsi valori. Fai quello che ti piace e ti fa star bene. Diventa te stesso”. Il paradosso di chi prende a modello le belle persone, d’altronde, risiede nel pericolo dell’eterogenesi dei fini, nel combinare danni laddove si vorrebbe fare il bene, e allora tanto meglio essere «una persona diversamente brutta / Che voleva cambiare il mondo», non aderendo ad exempla predefiniti di virtù, lasciandosi fluttuare tra una polarità e l’altra dell’esistere, «nuvole leggere senza cielo» (Siamo un respiro d’acqua).

Impossibile e vano spingersi oltre nella explicatio di un parto poetico, specialmente se lo sforzo lirico procede per scarti e sottrazioni («Quel che resta / È una ciotola di ferro / Tra crepe d’azzurro / E cristalli di vetro e di vite frantumate»), ricerca di correlazioni ed evocazione quasi rabdomantica di linee di tensione («E come cime di pini innamorate / Ci rincorreremo nel vento / E abiteremo montagne incantate»). In Donato Di Poce emerge con nettezza sia una forma di fiducia, ovviamente non cieca né ideologicamente orientata, nei confronti delle capacità umane, sia il desiderio di scavare nelle macerie della nostra civiltà crollata sotto il peso di mali autoinflitti. Nell’incertezza generalizzata brilla un desiderio di fratellanza, un appello a coloro che, coltivando le arti e il sapere, ancora «possono alzare il sipario sul massacro / La mattanza delle idee / E delle emozioni postume» (La danza delle scorie). Le ultime composizioni sono dedicate ad amici del fare e disfare poetico, antieroi del verso in grado di affrontare, pur avvertendo il pericolo, o forse proprio per questo, i mulini a vento del dolore e della disillusione. Il poeta è colui che apre le vene e lascia colare a terra un inchiostro più denso del suo stesso sangue, il poeta è un soldato armato soltanto di parole, oscene, sante, impronunciabili eppure dette, sussurrate, urlate, in guerra perenne con la logica assurda di una quotidianità feroce, perché «la vita è una trincea / Da vivere senza elmetti / Senza paracadute o maschere» (L’ultima poesia).

Di Poce si esprime in versi liberi, spesso strutturati in stanze ove una congiunzione, un sostantivo, un verbo o un’intera frase, ripetuti in apertura di verso, legano le singole immagini poetiche ad un’unica sorgente di dis-senso. In Lampi di verità il lettore troverà inni di autentica devozione verso l’uomo resistente all’esilio e alla barbarie, in assonanza con la lezione di Mario Luzi, quando ci sollecita a riconoscere “la nostra patria desolata / della nascita nostra senza origine / e della nostra morte senza fine” (Né il tempo). Siamo destinati a vivere tra le coordinate temporali di questa epoca non barattabile con altre, e, per molti sventurati, nello spazio disegnato dal reticolo di fili spinati quale unico orizzonte. Qua, sta lo sfregio della nascita. Eppure, dalla sfera della vita sensibile, martoriata, sottoposta a tortura, emana una invincibile carezza, a riparare, beffarda, i guasti della Storia e delle inimicizie umane. Il poeta ha in tasca una fragile matita da cui sgorga la lacrima dell’oppresso. Il poeta spezza la matita come spezza il pane, offre al prossimo un’intuizione, una scheggia di vita estratta dalla carne, e, se riceve in cambio sputi anziché sorrisi, sa che questo è l’inconveniente di ogni dono. La poesia soffierà, comunque, sulle braci del sacrificio.

Dalla prefazione di Alessandro Vergari